(...)Elisabetta era tornata silenziosa.
“Domani che fai?”
Solita vita, solita palla, città di merda, lavoro di merda,
bambini di merda, voglio la mamma. In sintesi, la sua risposta.
Era difficile darle ragione, ma pure darle torto.
“Andiamo a mangiare il bo-bun domani?”
“Ok, ma non possiamo mangiare fuori tutti le sere”.
“Non mangiamo fuori tutte le sere e poi il bo-bun costa
sette euro ed è il migliore di Parigi, dici queste cose perché proprio ci godi
a sottolineare che la tua vita fa schifo, è la tua missione dimostrare a te
stessa che non hai speranze.”
La vidi, senza che lei se ne accorgesse, fare quel
sorrisetto da bambina dispettosa, che l’aveva fatta a tutti pure quella volta,
e cercai di immaginarmela nel suo paese descritto come il più piccolo e brutto
del mondo, ovviamente, nel Veneto lontano da dio, quello delle campagne e
dell’alcool. Ripassavo le descrizioni di Aurora l’unica amica di sua madre
Rosa, Aurora era la più tapina del villaggio, abbandonata dal suo fidanzato che
per questo aveva cominciato a bere e così quando la domenica sera partiva con la
sua bici per andare dove avrebbe trascorso la settimana, nella sua fabbrica di
occhiali, ecco che cadeva puntuale dalla bici e tutti e quattro gli abitanti
del villaggio sentivano arrivare l’ambulanza e pensavano: sarà l’Aurora di
sicuro. Era come se la vedessi Aurora, lei che entrava nell’unico bar del paese
apposta per chiedere l’acqua brillante e poi correva dalla mamma di Elisabetta
per dirle: “Che paese di stronzi, non sanno neppure cos’è l’acqua brillante”.
La mamma di Elisabetta era la ragazza madre del villaggio
sperduto del cattolicissimo Veneto e lei era la figlia della ragazza madre, che
era pure morta quando era ancora una
ragazzina e al mondo non aveva nessuno, una zia, una nonna, un cugino, nessuno.
Per quanto mi sforzassi, la battaglia con lei era sempre impari, lei era
bambina indesiderata e orfana, vinceva lei. Tutti volevano salvare Elisabetta, anche io.(...)